CHI SIAMO

UPV è un movimento politico-culturale che ha l’obiettivo di creare una sintesi tra ideali socialisti, difesa dell’Identità Nazionale Veneta e lotta per l’autodeterminazione dei Territori Veneti. Il nostro scopo è diffondere il Venetismo nella sinistra e la sinistra nel Venetismo, in modo da portare alla costituzione di una SINISTRA VENETA INDIPENDENTISTA E IDENTITARIA.

lunedì 10 marzo 2014

La sindrome del servo felice


Negli Stati Uniti, ai tristi tempi della schiavitù, esistevano principalmente due tipi di uomini neri: gli schiavi, in catene, malnutriti, maltrattati e torturati, e i servi, ben nutriti, benvestiti e con una relativa libertà di movimento. Qualche veneto con la mentalità tipica da italiano potrebbe essere portato a dire ‘meglio servi che schiavi’, cosa che sembrerebbe ovvia, ma se osserviamo la cosa da un altro punto di vista tutto risulta capovolto. Lo schiavo era costretto in catene perché rivoleva la sua libertà, veniva fustigato perché non si sottometteva al padrone, veniva ucciso perché era ancora un uomo. Il servo veniva pulito e vestito in maniera acconcia perché doveva vivere nella casa del padrone, veniva nutrito decentemente come premio per la sua docilità, non aveva catene perché non esisteva pericolo di fuga, infatti il servo non bramava la libertà, ma ne era terrorizzato, perché libertà significava dover pensare a se stessi, significava dover prendere delle decisioni e il servo, senza nessuno che gli dicesse cosa fare e come farlo, si sentiva perduto.
Il servo, chiamato spregiativamente “negro da cortile” dagli schiavi, era felice della sua condizione ‘privilegiata’, pur nella consapevolezza di essere solamente una proprietà dell’uomo bianco, ovvero poco più di un capo di bestiame, era sicuramente in una situazione migliore di uno schiavo, ovvero meno di un animale. Cercava continuamente di convincere anche gli altri servi che quello era il migliore dei mondi possibili e che non c’era futuro al di fuori della fattoria, che, dopotutto, il loro padrone era migliore di molti altri, perché c’è
sempre qualcosa o qualcuno di peggiore. Il negro da cortile era in continua competizione con i suoi pari, ne sminuiva il lavoro e ne segnalava puntualmente le mancanze, anche dove non c’erano… e, se veniva a sapere che gli schiavi progettavano una fuga o qualsiasi altro atto che poteva turbare la serenità della fattoria, andava prontamente a denunciare il fatto al padrone. Il compenso della sua delazione poteva essere una promozione nella gerarchia della servitù oppure una razione extra di zuppa, magari con dentro qualche avanzo di carne, ma, anche se non avesse avuto niente di tutto questo, si sarebbe comunque segnalato come il più affidabile dei servi. E anche se il prezzo del tradimento nei confronti della sua gente fosse stato qualche schiavo impiccato o castrato, poco gli importava, perché in fondo il negro da cortile disprezzava gli schiavi per la loro condizione, li detestava per le loro turbolenze, che mettevano in pericolo la sua posizione, infatti anche se il servo si vestiva come i bianchi e viveva nella loro stessa casa, la sua pelle era e restava nera e questo lo esponeva all’ira del padrone, ma soprattutto li odiava perché, anche se venivano evirati, avevano comunque più attributi di tutti i servi della fattoria messi assieme.
Il disprezzo era comunque ricambiato e, quando scoppiava una rivolta di schiavi, i negri da cortile che non erano svelti a volatilizzarsi facevano una triste fine.
Poi la vergogna dell’umanità chiamata schiavitù finì e da allora canti, romanzi, ballate e film raccontano storie di schiavi neri che si liberano dalle catene. La meschina figura del “negro da cortile” è stata invece relegata nel ripostiglio della storia, assieme a quella del “kapò” e del “collaborazionista”.
Oggi, a quasi 150 di distanza dalla fine della schiavitù, gli Stati Uniti hanno un presidente nero e se questo è potuto accadere è anche per merito degli schiavi che amavano la libertà, non certo per merito dei servi che ne avevano paura.