CHI SIAMO

UPV è un movimento politico-culturale che ha l’obiettivo di creare una sintesi tra ideali socialisti, difesa dell’Identità Nazionale Veneta e lotta per l’autodeterminazione dei Territori Veneti. Il nostro scopo è diffondere il Venetismo nella sinistra e la sinistra nel Venetismo, in modo da portare alla costituzione di una SINISTRA VENETA INDIPENDENTISTA E IDENTITARIA.

giovedì 10 luglio 2014

Non possono arrestare la storia

2 aprile 2014 ore 5 del mattino.
PLIN PLON… “Chi sarà mai a quest’ora?”
PLIN PLON… “CHI CAZZO E’?”
“Carabinieri!”
Ci sono molti modi migliori di iniziare una giornata.
2 aprile 2014 ore 8 e 30 di sera.
SBANG! Clack clack clack… Il portone blindato si chiude dietro le sbarre della cella.
Ci sono pochi modi peggiori di finire una giornata.
In mezzo perquisizioni con sequestro di tutto ciò che portava impresso un Leone di San Marco: magliette, manifesti, bandiere, libri. Schedatura dai CC con impronte e foto, prima davanti e poi di lato. Viaggio verso il Due Palazzi, altra schedatura, altre impronte, altre foto, prima davanti e poi di lato. Infine full immersion nel pianeta carcere.
Personalmente ero turbato, ma non spaventato. Questo perché so benissimo di essere una persona scomoda con idee scomode. Come ogni volta, quando abbraccio una causa, lo faccio in maniera radicale e totalizzante, se poi la causa vede come controparte quel leviatano chiamato Stato Italiano, allora il rischio di finire stritolato dai suoi artigli o sbranato dalle sue fauci diventa molto più di un’ipotesi. Ma quello che più mi ha infastidito del 2 aprile è stata l’accusa con cui siamo finiti dentro, ovvero ‘terrorismo’!
A parte il fatto che anche i nazifascisti chiamavano terroristi i partigiani (e tutti sappiamo com'è andata a finire), terrorismo ha come sinonimo ‘lotta armata’, cosa ben differente dall'occupazione simbolica di una piazza e di qualche edificio. Il motivo di un’accusa tanto sproporzionata rispetto alle potenzialità e ai fini dei Nuovi Serenissimi è facile da spiegare, partiamo da un presupposto: dubito seriamente che lo stato italiano possa avere così tanta paura del sottoscritto e di qualche altra decina di operai, impiegati, casalinghe e commercianti, da cucirci addosso l’etichetta di ‘terroristi’ con tanta facilità. Quindi quello di cui lo stato ha realmente paura sono i veneti! Lo stato, o ciò che ne resta, è terrorizzato dall’idea che i veneti prendano coscienza di essere un popolo, che si ricordino di cos’erano fino a duecento anni fa, che si ribellino alla loro squallida e insignificante condizione di ‘regione ordinaria’ della Repubblica italiana. Il messaggio dello stato è chiaro: guai a voi se provate ad alzare la testa dal fango, guai a voi se smettete di comportarvi come pecore da mungere e tosare, perché oltre alla tosatura e alla mungitura c’è anche l’eventualità della macellazione! Un messaggio che molti pavidi veneti, divenuti oramai italiani del nord est, hanno senz’altro recepito, tornando ad occuparsi del proprio orticello. Almeno fino a quando avranno ancora un orticello a cui pensare. Altri però hanno, seppur di malavoglia, dovuto aprire gli occhi sulla ‘Questione veneta’ e prendere atto che lo scollamento tra lo stato e una sempre più larga fascia della popolazione sta diventando strutturale e, ancor peggio (per alcuni), virale. Per altri ancora, indecisi sulla necessità di un progetto indipendentista, si è trattato di un episodio che ha reso palese la reale natura dello stato italiano. Una vera e propria ‘fine dell’innocenza’.
Anche i tempi dell’operazione ‘Simile’ non sono stati casuali: due settimane dopo il terremoto politico-mediatico del referendum digitale di Plebiscito e negli stessi giorni in cui la commissione regionale decideva sulla fattibilità di un referendum ufficiale sull’indipendenza del Veneto. Qualcuno ha parlato di giustizia ad orologeria e, come diceva De Andrè, se non ha tutte le ragioni, di torto ne ha ben poco.
Fortunatamente, un paio di settimane dopo, il tribunale del riesame di Brescia ha giudicato la vicenda con molta più lucidità e molto meno furore etnico-ideologico rispetto alla procura, demolendo, per ora, le accuse più gravi e ridimensionando il tutto. Così molti di quelli che venti giorni prima erano una versione euganea di Al Quaeda, sono tornati liberi. Ma qualcuno si fida davvero della magistratura italiana? La giustizia malata di uno stato malato è affidabile quanto una granata difettosa e senza sicura, quindi do per scontato che le vicissitudini di tutti i patrioti coinvolti siano tutt’altro che finite. Ma il sottoscritto non è uno di quelli che crede basti chiedere la libertà per ottenerla, il percorso per l’indipendenza è disseminato di ostacoli e trappole, difficile percorrerlo fino in fondo senza farsi male!
Tornando agli arresti di aprile, personalmente la detenzione non ha fatto altro che rafforzare le mie convinzioni e la mia determinazione e questo per tre motivi: prima di tutto perché il carcere è uno di quei posti dove la linea di demarcazione tra chi ha gli attributi e chi è solo convinto di averli diventa decisamente netta. In secondo luogo le notizie che arrivavano da fuori parlavano esclusivamente di solidarietà e vicinanza sia personale che politica. Infine, ma non ultimo, sentire rinnegati, collaborazionisti e paraculi vari che attaccavano noi e le nostre idee su giornali e televisioni mi ha dato la certezza di essere nel giusto.
Ma la mia più forte convinzione è che magistratura e carabinieri possono arrestare le persone, ma non possono arrestare la storia! E la storia ha già emesso la sua sentenza nei confronti dello stato italiano, della sua cialtroneria, della sua arroganza, della sua iniquità e della sua inadeguatezza, ora basta solo che il popolo la renda esecutiva.



                                           Riccardo ‘Estremamente Sereno’ Lovato

lunedì 7 luglio 2014

UNITA'

Nelle scorse settimane un nuovo soggetto politico veneto ha preso contatto con U.P.V. tramite il nostro portavoce Riccardo Lovato. L’intento comune è quello di riunire, se non tutti, almeno i principali movimenti ‘venetisti’ in vista delle elezioni regionali 2015 allo scopo di presentarsi con un’unica lista indipendentista. Siamo sempre stati favorevoli a tutti i progetti che vogliono riunire tutte le sigle per un Veneto indipendente, perciò siamo molto interessati a questa nuova proposta che cerca di aggregare tutti al di là di differenti orientamenti politici e sterili personalismi!!! U.P.V. valuterà con spirito propositivo e seria attenzione questa idea, senza però rinunciare ad alcuni punti fondamentali del pensiero che ha portato alla fondazione di U.P.V. Il cardine principale per una seria proposta al popolo Veneto è basata sul fattore identitario, siamo un popolo perchè abbiamo storia, cultura e lingua comuni e con radici  millenarie, è per questo che vogliamo uno stato Veneto. Consci della nostra storia e tradizione cristiana, auspichiamo un assetto laico per un futuro Stato Veneto, ricordiamo a tutti che la Repubblica Serenissima si trovò diverse volte in conflitto con le richieste del Vaticano (celebre il detto prima veneziani e poi cattolici). Consideriamo la libertà dell’individuo e la giustizia sociale punti fondamentali e ci batteremo sempre contro ogni discriminazione! Ricordiamo a tutti che non siamo ne contro la proprietà personale ne contro l’impresa nel rispetto dell’individuo e dell’ambiente.

lunedì 10 marzo 2014

La sindrome del servo felice


Negli Stati Uniti, ai tristi tempi della schiavitù, esistevano principalmente due tipi di uomini neri: gli schiavi, in catene, malnutriti, maltrattati e torturati, e i servi, ben nutriti, benvestiti e con una relativa libertà di movimento. Qualche veneto con la mentalità tipica da italiano potrebbe essere portato a dire ‘meglio servi che schiavi’, cosa che sembrerebbe ovvia, ma se osserviamo la cosa da un altro punto di vista tutto risulta capovolto. Lo schiavo era costretto in catene perché rivoleva la sua libertà, veniva fustigato perché non si sottometteva al padrone, veniva ucciso perché era ancora un uomo. Il servo veniva pulito e vestito in maniera acconcia perché doveva vivere nella casa del padrone, veniva nutrito decentemente come premio per la sua docilità, non aveva catene perché non esisteva pericolo di fuga, infatti il servo non bramava la libertà, ma ne era terrorizzato, perché libertà significava dover pensare a se stessi, significava dover prendere delle decisioni e il servo, senza nessuno che gli dicesse cosa fare e come farlo, si sentiva perduto.
Il servo, chiamato spregiativamente “negro da cortile” dagli schiavi, era felice della sua condizione ‘privilegiata’, pur nella consapevolezza di essere solamente una proprietà dell’uomo bianco, ovvero poco più di un capo di bestiame, era sicuramente in una situazione migliore di uno schiavo, ovvero meno di un animale. Cercava continuamente di convincere anche gli altri servi che quello era il migliore dei mondi possibili e che non c’era futuro al di fuori della fattoria, che, dopotutto, il loro padrone era migliore di molti altri, perché c’è
sempre qualcosa o qualcuno di peggiore. Il negro da cortile era in continua competizione con i suoi pari, ne sminuiva il lavoro e ne segnalava puntualmente le mancanze, anche dove non c’erano… e, se veniva a sapere che gli schiavi progettavano una fuga o qualsiasi altro atto che poteva turbare la serenità della fattoria, andava prontamente a denunciare il fatto al padrone. Il compenso della sua delazione poteva essere una promozione nella gerarchia della servitù oppure una razione extra di zuppa, magari con dentro qualche avanzo di carne, ma, anche se non avesse avuto niente di tutto questo, si sarebbe comunque segnalato come il più affidabile dei servi. E anche se il prezzo del tradimento nei confronti della sua gente fosse stato qualche schiavo impiccato o castrato, poco gli importava, perché in fondo il negro da cortile disprezzava gli schiavi per la loro condizione, li detestava per le loro turbolenze, che mettevano in pericolo la sua posizione, infatti anche se il servo si vestiva come i bianchi e viveva nella loro stessa casa, la sua pelle era e restava nera e questo lo esponeva all’ira del padrone, ma soprattutto li odiava perché, anche se venivano evirati, avevano comunque più attributi di tutti i servi della fattoria messi assieme.
Il disprezzo era comunque ricambiato e, quando scoppiava una rivolta di schiavi, i negri da cortile che non erano svelti a volatilizzarsi facevano una triste fine.
Poi la vergogna dell’umanità chiamata schiavitù finì e da allora canti, romanzi, ballate e film raccontano storie di schiavi neri che si liberano dalle catene. La meschina figura del “negro da cortile” è stata invece relegata nel ripostiglio della storia, assieme a quella del “kapò” e del “collaborazionista”.
Oggi, a quasi 150 di distanza dalla fine della schiavitù, gli Stati Uniti hanno un presidente nero e se questo è potuto accadere è anche per merito degli schiavi che amavano la libertà, non certo per merito dei servi che ne avevano paura.